Esiste un mondo così adiacente e simile al nostro, che in alcuni istanti o saltuari giorni,
a causa di orbite intrecciate o complicati percorsi, di stati d'animo dolente e malanni di vita,
si avvicina al nostro presente così tanto da sfiorarlo e sovrapporsi.

Al passaggio in certi orari e luoghi si mostrano i segni di questa interferenza:
una penombra improvvisa che vela un cammino altrimenti limpido;
una brevissima sosta che si prolunga a dismisura nella percezione di chi attende;
una lampadina che sfrigolando si spegne con uno schiocco;
la scarica che a crescente fatica saetta nel tubo del neon;
la parete che da umida s'impregna e gronda d'acqua.

Queste sono le pagine sparse di chi ha colto i segni del suo transito.
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venerdì 6 marzo 2009

Veloce spedizione ai margini estremi di Terradue

Leggevo Dean Kuntz quando mi hanno condannato a morte.
Sono venuti a dirmi, direttamente al mio lettino d’ospedale, che dovevano farmi una Tac perché “sospettavano qualcosa al fegato”. Dovevo firmare, per via del liquido di contrasto che poteva farmi un effetto da kriptonite rossa, o anche verde. Ho sceso un po’ di scale e traversato corridoi, dove tutto era immobile e raggelato come me. Mi hanno esaminato, sempre in stato di stupefazione, e riportato al mio letto. Lì mi sono rimesso a leggere Kuntz, nella mia stanza a sei letti, vuota. Ho fatto la solita cabala: se il protagonista muore, muoio anch’io. Il protagonista muore. Mentre stavo considerando se buttarmi dalla finestra per bypassare la noiosa procedura di morire con tutti crismi in ospedale (ma un po’ perplesso, perché il libro aveva ancora una ventina di pagine e mi sembrava improbabile che avessero concluso la vicenda nell’aldilà), sono venuti a dirmi che per questa volta non morivo. Me l’ha detto la mia dottoressa preferita, a cui ho stretto la destra con le mie mani congiunte, un gesto che dato il mio understatement corrisponde a un appassionato abbraccio. Mentre il mondo riprendeva a funzionare e la brina scivolava via dal cuore, ho finito Kuntz (il protagonista moriva, ma non in senso canonico, il che spiegava perché io ero vivo). Poi sono andato sul terrazzo e mi sono messo a cantare qualcosa, ridacchiando.