Leggevo Dean Kuntz quando mi hanno condannato a morte.
Sono venuti a dirmi, direttamente al mio lettino d’ospedale, che dovevano farmi una Tac perché “sospettavano qualcosa al fegato”. Dovevo firmare, per via del liquido di contrasto che poteva farmi un effetto da kriptonite rossa, o anche verde. Ho sceso un po’ di scale e traversato corridoi, dove tutto era immobile e raggelato come me. Mi hanno esaminato, sempre in stato di stupefazione, e riportato al mio letto. Lì mi sono rimesso a leggere Kuntz, nella mia stanza a sei letti, vuota. Ho fatto la solita cabala: se il protagonista muore, muoio anch’io. Il protagonista muore. Mentre stavo considerando se buttarmi dalla finestra per bypassare la noiosa procedura di morire con tutti crismi in ospedale (ma un po’ perplesso, perché il libro aveva ancora una ventina di pagine e mi sembrava improbabile che avessero concluso la vicenda nell’aldilà), sono venuti a dirmi che per questa volta non morivo. Me l’ha detto la mia dottoressa preferita, a cui ho stretto la destra con le mie mani congiunte, un gesto che dato il mio understatement corrisponde a un appassionato abbraccio. Mentre il mondo riprendeva a funzionare e la brina scivolava via dal cuore, ho finito Kuntz (il protagonista moriva, ma non in senso canonico, il che spiegava perché io ero vivo). Poi sono andato sul terrazzo e mi sono messo a cantare qualcosa, ridacchiando.
venerdì 6 marzo 2009
Iscriviti a:
Post (Atom)